Come migliorare il tuo business con il metodo O.D.I

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In un'epoca in cui tutti parlano, è forse arrivato il momento di ascoltare.

Il mondo del business è fatto di networking, relazioni, meeting, e la comunicazione è all'ordine del giorno.

Luca Brambilladocente di Soft Skills Neuroscientifiche ed esperto di formazione one-to-one nel campo della comunicazione strategica e delle negoziazioni, ci spiega come ribaltare i nostri classici paradigmi comunicativi con il metodo O.D.I.

Da quando esistono i social tutti hanno avuto modo, in maniera imparagonabile rispetto a quanto avveniva prima, di dire la propria su qualunque argomento. Forse anche per questo motivo immaginiamo, in modo stereotipato, il "buon comunicatore" come una persona in piedi davanti a una grande folla che lo ascolta imbambolata.

 

Ma, in un'epoca in cui tutti parlano, urlano per esprimere la propria opinione o per vendere il proprio prodotto, rischia di venir meno un ruolo fondamentale: quello di chi ascolta.

 

Avendo in mente questi pensieri, insieme a numerosi libri e ricerche di carattere neuroscientifico (che per amor di voi lettori non cito), ho deciso di brevettare un metodo in grado di ribaltare il paradigma classico della comunicazione.

 

La volontà è quella di concentrare l'attenzione non più sul self e sul contenuto del proprio discorso: il rischio di tale atteggiamento comunicativo è infatti quello di produrre uno storytelling che non contempla, per sua natura, i bisogni del cliente.

 

Il metodo in esame indica, invece, una strada concreta e applicabile che consenta di mettere chiaramente a fuoco l’attenzione per l’interlocutore, intercettandone ogni possibile segno di interesse. Il Metodo O.D.I infatti è l'anagramma di "osserva, domanda, intervieni”.

 

Procedo dunque per ordine.

 

Quando avviene un primo incontro serve concentrarsi sull'osservazione dell’altro, e per farlo bisogna conoscere almeno due importanti nozioni: la prima è la modalità, dal punto di vista neuroscientifico, secondo la quale si formano in noi i pregiudizi (conoscenza che, pur non permettendoci di evitarli, ci permette ugualmente di esplicitarli e di non esserne più vittime); il secondo elemento da considerare e imparare è l'importanza della comunicazione non verbale, che rivela il reale stato d'animo che provano le persone ed è un elemento fondamentale per avere un continuo feedback di come sta andando la relazione, al di là di quel che sentiamo raccontare a voce.

 

Nella seconda fase bisogna far spazio alle domande, o usando un termine di cui mi servo quando insegno, all'arte delle domande strategiche. Siamo infatti abituati a fare domande chiuse, tese solo a verificare preconcetti che abbiamo già formulato e non a indagare ciò che prova l'altro e di cui realmente ha necessità.

 

A tal proposito è illuminante una ricerca del 1987 di Fisher che mostra come in dialogando con qualcuno in fase di conoscenza, ben nove domande su dieci siano chiuse e una sola aperta, ovvero tesa alla scoperta dell'altro. Comprendere questo secondo step del metodo è fondamentale, perché altrimenti si arriva alla terza fase non avendo individuato i punti nodali che interessano al nostro interlocutore.

 

Il terzo momento della relazione è simboleggiato dalla "i" di “intervento”. Generalmente "i" tende a concretizzarsi in in situazioni di vendita che richiedono di utilizzare una linguistica capovolta. Il venditore di turno non dovrà semplicemente vendere qualcosa dal momento che questo tipo di comunicazione è ancora troppo incentrata sull’io: il cuore dell’interazione dovrà invece consistere nel far comprare all'altro il prodotto.

 

Questo cambio di strategia necessita ovviamente di un lavoro notevole di preparazione. Talvolta la "i" può declinarsi nel coaching, che personalmente chiamo "dialoghi strategici”, e infine nel campo delle negoziazioni, in cui entrambe le parti hanno bisogno dell'altro per costruire un progetto.

 

Questa rivoluzione del paradigma della comunicazione è complessa perché la cultura in cui siamo immersi e, soprattutto, le leggi che regolamentano il funzionamento del nostro cervello, spingono a un approccio egoistico, incentrato sull'io imperante. Questo metodo non è tuttavia nato solo dai libri, ma anche, e soprattutto, dalle docenze in aula alla Business School del Sole 24 Ore e dalle consulenze svolte nelle multinazionali: l’obiettivo non è, infatti, semplicemente farlo comprendere, ma farlo apprendere, far sì che diventi abitudine neurale, un habitus. E per far ciò servono tre strumenti, da diffondere prima in un'aula di formazione e poi ogni giorno nella propria azienda: pratica, pratica, e pratica.

 

Avere un approccio scientifico e non basato solamente sulla propria esperienza personale permette di ottenere risultati migliori in diversi campi.
In questi ultimi mesi ho avuto il piacere di formare top manager di società come Ferrero, Roche, Microsoft e tutti costoro, dopo aver appreso un metodo atto a un ascolto più efficace delle esigenze dei loro stakeholders, hanno migliorato sensibilmente le loro prestazioni nei campi della vendita, nell'abilità di negoziare per creare nuove alleanze, nonché  una miglior gestione delle relazioni sia sul lavoro che nella vita privata.

 

Anche questo metodo ha però un "punto debole". Infatti, mi sono per ora limitato a un metodo che favorisca i rapporti (e quindi il business); per un metodo che levi la fatica, e quindi il gusto, di imparare temo che anche le mie amate neuroscienze dovranno attendere (parecchio) tempo.

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