L’economista Henry Chesbrough nel 2003, all’interno del libro The era of Open Innovation, solleva per la prima volta la questione dell’innovazione all’interno delle organizzazioni aziendali ed offre questa riflessione: giacché il ciclo di vita di un prodotto è divenuto troppo breve, è impossibile che una grande azienda possa avere solo al suo interno il reparto di ricerca e sviluppo. Affinché ci sia innovazione fruttuosa in tempi e costi sostenibili, deve avvalersi di fattori esterni di ricerca.
Apre quindi la strada a quella che oggi è definita come Open Innovation, ovvero la partecipazione di componenti esterne che contribuiscono all’innovazione di un determinato settore. Le aziende quindi possono e devono ricorrere a strumenti e competenze tecnologiche che arrivano dall’esterno, in particolare da startup, università, istituti di ricerca, consulenti etc etc.
Cosa cambia con l’OI ed i possibili impatti sulle economie delle nazioni
Si tratta di uno stravolgimento in termini di organizzazione del lavoro che da un lato tiene conto dei cambiamenti tecnologici che abbiamo oggi a disposizione (tutto il comparto clouding ad esempio ha di fatto consentito a più soggetti di partecipare al medesimo progetto pur non essendo all’interno della stessa realtà aziendale), e dall’altro della continua ricerca alla verticalità rispetto a determinati servizi.
Non si tratta di un semplice cambio organizzativo finalizzato a migliorare i servizi offerti da un’azienda, si tratta di una vera e propria opportunità di crescita per interi comparti industriali.
Nel 2014 Accenture, attraverso il rapporto Digital Collaboration Index, ha quantificato che nei paesi che aderiscono al G20, ove mai sfruttassero a pieno le possibilità date dalla Open Innovation, potrebbero contribuire ad un aumento di ricchezza globale pari a 1,5 trilioni di dollari, il 2,2% del P.I.L. mondiale. Solo in Italia lo stesso studio stabilisce una possibile crescita di 35 miliardi di euro, l’1.9% del P.I.L del nostro paese, una cifra che è pari a quella di una manovra finanziaria.
L’open innovation nel 2017: 5 case study di successo
EconomyUp ha racconto alcuni dei migliori casi di open innovation in tutta Europa che al meglio rappresentano le opportunità di partnership tra aziende e contesti istituzionali, di seguito alcuni trai i più significativi:
• EasyJet e le startup di Londra: la società britannica di voli low cost ha stretto un accordo con Founders Factory, incubatore ed acceleratore londinese: investirà ogni anno in 5 startup. Carolyn McCall, CEO di EasyJet ha così commentato: «Le future generazioni di imprenditori ci danno un pensiero ‘fresco’ sulle nuove tecnologie»
• BNP Paribas: la compagnia assicurativa ha lanciato un contest in Italia volto agli investimenti sulla User Experience, in collaborazione con InsuranceUp e Polihub
L’under 30 che ha rivoluzionato Leroy Merlin: Aurelien De Nunzio, un giovane di 23 anni che era in un progetto di alternanza scuola-lavoro tra l’università di Lilla ed un punto vendita della società di distribuzione del mondo del fai da te e bricolage, è riuscito a fondare lastartup Permettez-moi de construire
• SIA e le società Fintech: Nicolò Romani, responsabile dell’Innovation Lab della società milanese che si occupa di sistemi di pagamento, ha dichiarato di valutare almeno due startup al mese per piani di investimenti pluriennali
• Microsoft investe 10 milioni in Italia: attraverso la fondazione growITup, ed in partnership con Fondazione Cariplo, la multinazionale americana lancia un progetto che punta sull’incontro tra aziende made in Italy e giovani imprese. L’investimento sarà triennale e si dipanerà su tre diversi settori.
Alessio Sarnelli